Durata ed efficacia delle pratiche edilizie
L’ing. Carlo Pagliai illustra le differenze tra le pratiche strutturali e quelle urbanistiche.
Nel Testo Unico per l’Edilizia, il buon D.P.R. 380/01, compaiono soltanto due tipi di procedure amministrative attinenti alle opere strutturali: la denuncia dei lavori (in gergo “deposito”) e l’autorizzazione per l’inizio dei lavori.
Essi sono attualmente disciplinati rispettivamente dagli articoli 93 e 94 dal suddetto Testo Unico, e ritengo sia interessante confrontarle con le pratiche di tipo urbanistico edilizio.
Proviamo ad analizzarle rispetto alle arcinote SCIA, Permessi di Costruire e CILA. Lo scopo di comparare due diverse categorie di procedure edilizie può consentire a fare ragionamenti più consapevoli e coordinare al meglio l’attività dello strutturista con la figura professionale che segue la parte meramente urbanistica.
Nulla vieta che tali figure possano coincidere nella stessa persona, coi dovuti pregi e difetti.
È assai diffusa la convinzione che le pratiche edilizie “comunali”, cioè quelle urbanistico-edilizie abbiano una scadenza: ben due decenni di concessione edilizia e autorizzazione, e prima ancora la licenza edilizia, hanno lasciato nell’immaginario collettivo la consapevolezza che i titoli abilitativi attinenti al Comune abbiano una scadenza.
Ai giorni nostri le cose stanno più o meno ancora così: la SCIA e il Permesso di Costruire hanno una efficacia massima di tre anni, decorrenti dall’inizio dei lavori (detto in termini riduttivi, ndr). Decorso tale termine, qualora l’opera non sia stata completata, la realizzazione della restante opera è subordinata al nuovo titolo edilizio, e alle nuove disposizioni, norme e regolamenti sopravvenuti.
Questo è un fermo principio che può creare notevoli problemi quando il cantiere si ferma per diversi motivi lasciando l’opera incompiuta. Infatti, è possibile (direi probabile) che nel tempo siano intervenute modifiche alle norme nazionali in materia edilizia, per non parlare di quelle regionali; a queste si devono aggiungere le eventuali modifiche avvenute alle norme di settore, a tutti gli strumenti urbanistici e di pianificazione (piani regolatori, regolamenti, piani paesaggistici, ecc).
In sostanza, qualora il titolo edilizio perda efficacia come anzidetto, la parte dell’opera realizzata assume una posizione legittimata, mentre la restante parte da compiersi dovrà essere trattata come se fosse un intervento a sé stante.
Questo per dire che bisognerà poi cercare di convincere il proprietario dalla possibile convinzione di un qualsivoglia “diritto acquisito” a finire l’opera esattamente come progettata e autorizzata inizialmente. L’eccezione alla regola in questo ambito è costituita dalla CILA, che consiste in una semplice comunicazione da inviare al Comune.
Per quel che se ne creda, la CILA riguarda opere che possono essere “astrattamente” compiute in regime di edilizia, tuttavia soggetta all’obbligo formale della comunicazione al Comune. Lo so, sembra un gioco di parole contraddittorio, ma in urbanistica funziona così. […]
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