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Ingegno, mito e… fantasia: la rocambolesca storia del salvataggio del tempio di Ramses II ad Abu Simbel

“E adesso che l’incredibile è fatto… passiamo all’impossibile.” – Adèle e l’enigma del faraone

20 Novembre 2024
Redazione calcolostrutturale.com
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LA SCOPERTA

Nel 1815, in mezzo al nulla del deserto nubiano, una roccia incuriosì l’irrefrenabile esploratore Johann Ludwig Burckhardt: era il copricapo del Faraone Ramses II, che spuntava 33 metri sopra la porta di ingresso del tempio di Abu Simbel. Quando Burckhardt fece ritorno al Cairo, conobbe l’archeologo padovano Giovanni Battista Belzoni, che all’epoca lavorava per conto di Henry Salt, console inglese in Egitto, e gli raccontò quello che aveva visto ad Abu Simbel, invitandolo ad intraprendere una campagna di scavi. Giunto sul posto, Belzoni si rese conto che sarebbe stato necessario un piccolo esercito di operai per portare a termine gli scavi del tempio. Tuttavia, dovette scontrarsi con la diffidenza delle autorità locali e dei lavoratori, che, abituati al baratto, non conoscevano l’uso della moneta e non intendevano accettare compensi in denaro. Belzoni, accusato di essere un cercatore di tesori, faticò non poco per convincere le autorità che il suo unico scopo era quello di riportare alla luce l’edificio sepolto sotto la sabbia.

Statua di Ramses II ad Abu Simbel ricoperta dalle sabbie

Alla fine l’accordo fu trovato: ciascun operaio avrebbe ricevuto due piastre per ogni giorno di lavoro. A quel punto, per ottenere l’autorizzazione, l’archeologo raggiunse Askut, dove si trovava il governatore locale Hussein Kachif. Questo concesse il suo benestare; in cambio, però, si sarebbe appropriato di metà dell’oro eventualmente rinvenuto all’interno del tempio. Belzoni accettò all’istante, sospettando, a ragione, che non avrebbe trovato nient’altro che statue in pietra. Dati gli innumerevoli problemi nella gestione delle maestranze e l’intollerabile lentezza nelle operazioni, Belzoni decise di portare avanti gli scavi con le sue stesse mani, aiutato da un gruppo di europei.  I lavori andavano avanti dall’alba fino alle 9 del mattino, quando il calore diveniva insopportabile, e dalle tre del pomeriggio fino al tramonto.

Il primo agosto 1817, ancora prima dell’alba, Belzoni e la sua squadra si affrettarono verso l’entrata del tempio con una buona scorta di candele. Per la prima volta, dopo più di mille anni, di fronte allo sguardo stupefatto dei visitatori, si apriva la vasta sala ipostila del tempio di Abu Simbel. Lo stesso Belzoni, nelle sue memorie, scrisse:

“La mattina del primo agosto allargammo il passaggio discoperto e avemmo il piacere di essere i primi a discendere nel più bello e vasto sotterraneo della Nubia. (… omissis) Al primo sguardo restammo stupiti dall’immensità di quel luogo; trovammo oggetti d’arte magnifici, pitture, sculture, figure colossali”.

Queste ultime erano le otto gigantesche statue osiriache di Ramses II, che sostenevano l’atrio del grande tempio.

Raffigurazione delle operazioni di liberazione del tempio dalle sabbie

Il tempio era scavato direttamente in uno sperone roccioso. Alla facciata, lunga 38 metri e alta 33, erano addossati quattro colossi, rappresentanti Ramses II seduto. Scolpiti nella roccia, costituivano un complesso di grande semplicità e di aspetto grandioso. Al di sopra 22 cinocefali in alto rilievo formavano un coronamento di oltre due metri di altezza. In una nicchia sopra il portale, un colossale altorilievo raffigurava una divinità con la testa di sparviero; a destra e sinistra dei basso rilievi rappresentavano il Re nell’atto di adorarla. L’interno, della profondità di 63 metri, comprendeva un pronao di 18 metri di lunghezza, il cui soffitto appariva portato da otto pilastri, a ciascuno dei quali erano addossate statue di Osiris con i tratti di Ramses II, descritte da Belzoni. Attraverso due altre sale si giungeva al santuario (di soli 4 metri di larghezza e 7 di profondità) sul cui sfondo spiccavano, tagliate anch’esse nelle viva roccia, le statue di Amon, Ptah , Re-Horakti e lo stesso Ramses, a cui il tempio era consacrato. Un edificio incredibile, dalle proporzioni ciclopiche, con un ulteriore segreto: due volte l’anno, in marzo e in settembre, il sole del mattino si spingeva fino ad illuminare le quattro divinità poste nella sala-santuario! Ma la leggenda di Abu Simbel era appena iniziata! […]

Il “miracolo del sole” che illumina le statue nel “sancta santorum”

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